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sabato 28 febbraio 2015

La Certosa ed il suo borgo

  Certosa di San Nicola di Francavilla in Sinni. Gli avvenimenti, di cui si tratterà, si svolgono nella media valle del fiume Sinni, un angolo della Basilicata noto per le sue bellezze fin dall’antichità, se è vero, come è vero, che il greco Archiloco (fram. 22) scrisse: “L’isola di Taso non è/sotto alcun aspetto bella/ né desiderabile, né amabile,/ come la terra bagnata/ dalle correnti del Sinni”...



   Doveva essere un’isola sommersa nel silenzio la Valle di Chiaromonte, tra i monti Caramola e Catarozzolo, sulla destra del Sinni, quando alla fine del 1300 arrivarono i Certosini per costruire la Certosa di San Nicola nel feudo Sant’Elania, loro assegnato da Venceslao Sanseverino, conte di Tricarico e Chiaromonte. Un’isola chiusa tra le anse del fiume ed i contrafforti del Pollino, toccata appena dalle penetrazioni elleniche, romane e bizantine, lambita ma non attraversata dagli itinerari che collegavano il nord e il sud per i traffici dei coloni greci, per le marce delle legioni di Roma, per le peregrinazioni dei seguaci di San Basilio, San Brunone e San Francesco di Paola. Ne ruppero il silenzio i carpentieri, i muratori, i fabbri impegnati nella costruzione del monastero; si aggregarono più tardi i coloni, i pastori, i vignaioli, gli artigiani, che diedero vita alla comunità di Francavilla nel corso dei primi decenni del 1400. Non era, tra l’altro, la prima volta nell’Italia meridionale che un monastero di Certosini desse origine ad un centro urbano.
   Narra la leggenda che la principessa Giovanna, moglie di  Sanseverino, si rivolse nel 1420 con devozione a San Nicola per la guarigione del figlio, gravemente ammalato, promettendo in dono ai monaci della Certosa il territorio che vedeva dalla finestra del castello di Chiaromonte. Il luogo corrispondeva all’antico abitato di Francavilla, sulla sponda del fiume Sinni e alle pendici del monte Caramola. Per grazia ricevuta, la Principessa mantenne la promessa, permettendo ai Certosini l’edificazione di una borgata per alloggiare le popolazioni provenienti dai paesi limitrofi, chiamate per lavorare le terre ed i boschi che scendevano folti fino alla Certosa. 
   La borgata prese il nome di “Francavilla” perché i coloni erano affrancati dal pagamento dei tributi. L’ordine conventuale dei Certosini, allo scopo di recuperare a coltura l’ampio territorio acquisito, liberò infatti i coloni dal peso fiscale e li rese compartecipi della proprietà fondiaria attraverso un usufrutto o tributo annuo, tale da consentire un margine di garantita sopravvivenza. “Fuit per dictum monasterium quoddam casale, nominatum Francavilla, francum et burgensaticum”. I vassalli del monastero di San Nicola di Francavilla non avevano alcun obbligo di prestare angarie e parangarie, ovvero prestazioni personali nei confronti del feudatario. Questa condizione non servile poneva il centro rurale in un ambiente sicuramente nuovo nella zona. I vassalli ricevevano dal monastero i mezzi per coltivare la terra e tutto ciò che occorreva per il buon andamento dell’azienda. I comportamenti degli autoctoni e dei nuovi arrivati si adeguarono alle regole che i monaci dettavano e praticavano nel rapporto con i vassalli. I monaci li selezionavano, li addestravano a nuove colture agricole, a nuovi mestieri e concedevano loro benefici, franchigie ed immunità in cambio di lavoro e fedeltà, secondo lo schema feudale classico, che verrà codificato nei Capitoli concessi all’atto notarile del 13 gennaio 1439.
   La Certosa doveva essere maestosa e magnifica, come appare dall’imponenza delle sue mura, ora diroccate, ed era la terza nel napoletano, dopo quella di Padula e l’altra di Serra San Bruno in Calabria. Le tre Certose, sorte durante il XIV secolo nel regno di Napoli, sembrano essere  state dislocate lungo la fascia appenninica, a difesa non solo della fede religiosa, ma anche del benessere materiale, inscindibile da una sana e corretta crescita morale.  
I monaci della Certosa di San Nicola, appartenenti a famiglie nobili e baronali, non abitavano in povere celle, ma ognuno di loro aveva un piccolo appartamento, con camera da letto, studio e cucina. Mangiavano per conto proprio e scendevano nel refettorio solo il giovedì. In tempi di carestia distribuivano gratuitamente il pane alla popolazione e, anzi, invalse l’usanza di distribuire ogni anno, dal 6 ottobre, festa di S. Bruno, al 9 marzo, festa di S. Nicola, pane a tutti. La Chiesa non era grande, ma sfarzosa e splendida. Vi erano custoditi due grandi busti d’argento, uno di S. Nicola e l’altro di S. Bruno, fondatori dell’ordine.  
Fra il 1808 e il 1812, per effetto della politica napoleonica, la Certosa fu interamente distrutta da parte delle armate francesi, comandate da Gioacchino Murat, privando la cittadina di un importante riferimento religioso e culturale. I beni sono andati perduti ed in parte incamerati dallo Stato e venduti a privati. Un esempio della maestria raggiunta dai Certosini è tuttavia ammirabile presso il Convento Francescano “SS.Trinità” di Baronissi in Salerno, dove nella Sacrestia sono conservati armadi in legno del 1648, intagliati e decorati, con la famosa pazienza certosina e con fine senso artistico, da Fra’ Innocenzo da Francavilla, tanto bravo  quanto, però, poco conosciuto.
Dopo l’Unità, il Comune di Francavilla in Sinni fece parte del circondario di Lagonegro e del Mandamento di Chiaromonte. La sua popolazione, che al censimento del 1862, ammontava sull’intero territorio comunale a 3045 persone, era dedita all’agricoltura (biade, olivi, viti, lino, canapa), con una fiorentissima pastorizia e ricca produzione di formaggi. Storicamente ha sempre fatto parte della Diocesi d’Anglona e Tursi.



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